Oramai seguivo un orologio della vita completamente diverso da quello esterno al muro. Mi ero in qualche modo assuefatto a quello che ebbi modo di definire il altra circostanza la sindrome mandriana. La nostra comunità viveva situazioni di autentico regime autarchico, anche nei comportamenti. Alla sera era suggestivo ascoltare seduti sui gradini che fornivano l’accesso nelle varie cascine. Gruppi di famiglia riuniti con i nonni che la facevano da protagonisti, mamme e nonne che rammendavano e ragazzotti che si divertivano con giochi da cortile. Mi capitava spesso di intrattenermi sino alle 22 presso la cascina Rubianetta, poiché al mattino la sveglia era quella dei contadini, ad ascoltare mille e mille racconti da parte degli anziani. Il primo argomento che mi scorre in testa riguarda l’opera ponderosa delle bonifiche di quei 1600 ettari di terreno Facendola breve, nel 1923,quando-fu dato il primo colpo di piccone delle bonifiche che dovevano portare alla redenzione delle terre della Mandria , inizia un’opera, vasta,complessa,difficile. Non era solo un problema di terreni aridi e sottoposti alle stagnazioni delle acque; qui era necessario provvedere alla trasformazione fisica e chimica del terreno. Si trattava di recuperare la sua naturale costituzione, per vincere la secolare sterilità. Era necessario armarsi di sicura tecnica ma abbinata ad una incrollabile tenacia. Un’azione graduata negli anni senza cadere in pericolose impazienze. La bonifica si articolava in quella agraria, che oggi sommariamente tratterò e quella boschiva. Per l’agraria una ponderosa opera di disboscamento, prevalentemente una ripulitura dei terreni dai cespugli. Furono impiegate squadre di cottimisti, ma anche volontari che a tempo libero si dedicarono a tale opera ricevendo in cambio l’omaggio della legna estirpata. Ma per aprire veramente il terreno all’opera feconda del vomere occorreva liberarlo dalle ceppaie e dalle radici dei cespugli e dalle piante abbattute. Mi ricordo vennero estirpati quasi centomila quintali di legname. Liberato il terreno, il vomere si affondò nella terra sino all’ora ingrata. Era il primo solco che,da tempo immemorabile squarciava quella crosta fibrosa. Debbo dire che conoscendo la realtà, giunti a quel punto del racconto ebbi quasi un beneficio cardiaco!.Aspettavo con ansia la fine del racconto di un opera che consideravo epica. Ma neppure dopo la sistemazione e la calcinazione i terreni erano pronti alle coltivazioni. Dovevano trascorrere almeno due anni e sottoporli ad almeno cinque arature. Intanto i costi lievitavano e il Marche medici ricorreva a continui prestiti da parte della Banca di Roma. Le prime colture furono possibili con la semina delle segale. Ma non era ancora sufficiente, la costituzione argillosa del terreno rendeva difficile e precaria ogni attività colturale. La mancanza di flora batterica non permetteva nemmeno la decomposizione della materia organica lasciata dalle vegetazioni spontanee. Per rimediarvi, Francesco e Giuseppe Medici dovettero provvedere a nuove fertilizzazioni: Occorreva importare forti quantitativi di letame, con l’esecuzione di abbondanti sovesci di leguminose lavorando in profondità. Per anni si importarono una media di 40 -50 mila quintali di letame dal presidio Militare di Venaria. Venne, con autorizzazione ministeriale e a spese della Famiglia prolungata la linea ferroviaria che giungeva in Regione Castello garantendo così il trasporto. Questo particolare ricorre spesso nei miei ragionamenti quando penso all’uomo, quello sottoposto a quelle enormi fatiche, una vita povera, grama, ma molto dignitosa. Un uomo che confligge con alcune tipologie di uomo odierno che vive in nome della mercificazione e del guadagno. Questi signori, a me procurano solo tristezza e a volte rabbia.
Armando Crivelli 15 settembre 2013